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Contro la dittatura della lingua inglese

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view post Posted on 5/10/2014, 11:45

papero

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.... come lo spiega bene! .....






dedicato a chi usa "made in Italy"
o a chi per definire il -carissimo- cibo italiano usa la crasi di due parole inglesi e, ovviamente, a tutti quelli che accettano cose simili


collegamento per il solo audio

www.mediafire.com/?soondjhdg0gs1za



Edited by papero62 - 5/10/2014, 17:02
 
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view post Posted on 5/10/2014, 12:37
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Ben detto! Condivido in pieno.
 
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view post Posted on 5/10/2014, 16:04
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...ed io aggiungo: abbiamo sempre detto "autoscatto", ora perchè dicono "selfie"????
 
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view post Posted on 7/10/2014, 06:42

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e pensa che io sono rimasta ai modus operandi......modus vivendi.....modus pensandi......modus scrivendi.... -_- -_- -_- -_-
 
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view post Posted on 7/10/2014, 11:35
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Tempo fa, sull'argomento, lessi un articolo di Camilleri: "Perchè la nostra lingua sta scomparendo". L'ho conservato perchè a mio avviso è ben scritto. Lo vorrei condividere con voi, ma l'ho messo su SPOILER perchè è un po' lunghetto. Per chi fosse interessato, gli basta cliccare sulla parola.
Camilleri: perchè la nostra lingua sta scomparendo
La guerra che subito dopo l’Unità d’Italia si cominciò a combattere più o meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni del fascismo, è stata un’insensata opera di autodistruzione di un immenso patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue. E oggi siamo sommersi da parole come "Devolution", "premier", "resettare". Se all’estero la nostra lingua è tenuta in scarsa considerazione, da noi l’italiano viene quotidianamente sempre più vilipeso e indebolito da una sorta di servitù volontaria e di assoggettamento inerte alla progressiva colonizzazione alla quale ci sottoponiamo privilegiando l’uso di parole inglesi. E c’è di più. Un esempio per tutti. Mi è capitato di far parte, quale membro italiano, della giuria internazionale del Premio Italia annualmente indetto dalla Rai con sede a Venezia. Ebbene, il regolamento della giuria prevedeva come lingua ufficiale dei giurati quella inglese, senza la presenza di interpreti. Sicché uno svedese, un russo, un francese e un giapponese e un italiano ci trovammo costretti ad arrangiarci in una lingua che solo il rappresentante della BBC padroneggiava brillantemente.
Va da sé che la lingua ufficiale, in Francia, del Festival di Cannes è il francese, la lingua ufficiale in Germania del Festival di Berlino è il tedesco. E il Presidente del Consiglio, parlando di spread o di spending rewiew è il primo a dare il cattivo esempio. Monti però non fa che continuare una pessima abitudine dei nostri politici, basterà ricordare parole come «election day», «devolution», «premier» e via di questo passo. Oppure creando orrende parole derivate tipo «resettare». Tutti segni, a mio parere, non solo di autosudditanza ma soprattutto di un sostanziale provincialismo. Piccola digressione. Il provincialismo italiano, antico nostro vizio, ha due forme. Una è l’esaltazione della provincia come centro dell’universo. E valgano i primi due versi di una poesia di Malaparte, «Val più un rutto del tuo pievano / che l’America e la sua boria»…, per dirne tutta la grettezza. L’altra forma è quella di credersi e di dimostrarsi non provinciali privilegiando aprioristicamente tutto ciò che non è italiano. Quante volte ho sentito la frase: «io non leggo romanzi italiani» o più frequentemente, «io non vado a vedere film italiani». Finita la digressione. Se poi si passa dalla politica al vivere quotidiano, l’invasione anglosassone appare tanto estesa da rendersi pericolosa. Provatevi a saltare da un canale televisivo all’altro (mi sono ben guardato dal dire «fare zapping»), vedrete che il novanta per cento dei titoli dei film o addirittura di alcune rubriche, sono in inglese. La stessa lingua parlano le riviste italiane di moda, di architettura, di tecniche varie. I discorsi della gente comune che capti per strada e persino al mercato sono spesso infarciti di parole straniere. In quasi tutta la strumentistica prodotta in Italia i sistemi di funzionamento sono identificati con parole inglesi. A questo punto non vorrei che si cadesse in un equivoco e mi si scambiasse per un sostenitore dell’autarchia della lingua di fascistica memoria. Quando il celebre brano jazz «Saint Louis blues» diventava «Tristezze di san Luigi», il cognac «Arzente» e i cognomi della Osiris o di Rascel si dovevano mutare in Osiri e Rascele. Benvenuto Terracini sosteneva, e a ragione, che ogni lingua nazionale è centripeta, cioè a dire che si mantiene viva e si rinnova con continui apporti che dalla periferia vanno al centro. Un amico russo, molto più grande di me, andatosene via nel 1918 dalla sua patria e tornatovi per un breve soggiorno nel 1960, mi confidò, al suo rientro in Italia, che aveva incontrato molte difficoltà a capire il russo che si parlava a Mosca, tanto era infarcito di parole e di locuzioni operaie e contadine che una volta non avrebbero mai ottenuto cittadinanza nei vocabolari. Ma erano sempre e comunque parole russe, non provenienti da lingue straniere.
In sostanza, la lingua nazionale può essere raffigurata come un grande, frondoso albero la cui linfa vitale viene risucchiata attraverso le radici sotterranee che si estendono per tutto il paese. È soprattutto dal suo stesso terreno, dal suo stesso humus, che l’albero trae forza e vigore. Se però il dosaggio e l’equilibrio tra tutte le componenti che formano quel particolare terreno, quell’unico humus, vengono alterati attraverso l’immissione di altre componenti totalmente estranee, esse finiscono con l’essere così nocive che le radici, esattamente come avviene in natura, tendono a rinsecchire, a non trasmettere più linfa vitale. Da quel momento l’albero comincia a morire. Se comincia a morire la nostra lingua, è la nostra stessa identità nazionale che viene messa in pericolo. È stata la lingua italiana, non dimentichiamolo mai, prima ancora della volontà politica e della necessità storica, a darci il senso dell’appartenenza, del comun sentire. Nella biblioteca di un mio bisnonno, vissuto nel più profondo sud borbonico, c’erano La Divina commedia, l’Orlando furioso e i Promessi sposi tutti in edizione pre-unitaria. È stata quella lingua a farlo sentire italiano prima assai di poterlo diventare a tutti gli effetti. Una lingua formatasi attraverso un processo di assorbimento da parte di un dialetto, il toscano, vuoi dal primigenio volgare vuoi da altri dialetti. Dante non esitava a riconoscere il fondamentale apporto dei poeti «dialettali» della grande scuola siciliana, e ricordiamoci che è stato il siciliano Jacopo da Lentini l’inventore di quella perfetta macchina metrica che è il sonetto. E in Boccaccio, in certe novelle geograficamente ambientate fuor da Firenze, non si coglie qua e là un’eco di quel dialetto parlato dove la novella si colloca? Perché da noi è avvenuta, almeno fino a una certa data, una felice coesistenza tra lingua nazionale e dialetti. Il padovano del Ruzante, il milanese di Carlo Porta, il veneziano di Goldoni, il romano di Belli, il napoletano di Di Giacomo, il siciliano dell’abate Meli hanno prodotto opere d’altissimo valore letterario che hanno arricchito la nostra lingua. La guerra che subito dopo l’Unità d’Italia si cominciò a combattere più o meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni del fascismo, è stata un’insensata opera di autodistruzione di un immenso patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue. Oggi paghiamo lo scotto di quell’errore. Abbiamo abbattuto le barriere e quei varchi sono rimasti pericolosamente senza difesa. La mia riflessione termina qui. Coll’augurio di non dover lasciare ai miei nipoti non solo un paese dal difficile avvenire ma anche un paese la cui lingua ha davanti a sé un incerto destino.
 
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view post Posted on 7/10/2014, 17:21

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Difficile essere in disaccordo con quanto ho sentito, ma esiste un imperialismo della lingua come dell'economia, della storia, della filosofia ecc. ecc. In fondo è stato così per il latino o il francese. Battersi contro queste cose mi sembra un po' un'azione di retroguardia o comunque di qualche piccola élite intellettuale. In sintesi direi che è un buon intervento destinato a restare, nei grandi numeri, solo teoria a meno che, come nel fascismo, si faccia un imperio tipo dire e scrivere alt per stop.
 
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view post Posted on 7/10/2014, 20:35

papero

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Premetto che sono in difficoltà, perché inizi con una affermazione che viene negata dal discorso che segue.

L'imperialismo, o meglio detto: l'imperialcapitalismo non può applicarsi alla Storia ché questa è la narrazione dei fatti ed avvenimenti (che saranno storici) e non gli stessi fatti ed avvenimenti in quanto tali.
Essere avanguardia, nel proprio tempo (nell'accezione di Karl Kraus), comporta comunque la difesa del retroterra culturale di appartenenza ed il nostro, in quanto italiani, non è quello anglosassone.
Se è definibile come atteggiamento fascista la difesa della cultura d'appartenenza, come si deve definire l'atteggiamento di chi svende la propria lingua ad un'altra cultura che gli è, e gli rimane, sconosciuta?
Per ogni popolo la lingua è il carattere distintivo, è la possibilità di trasformazione, accrescimento della propria cultura; trasformazione che include la relazione con altre culture.
L'appiattimento originato dall'imperio della lingua, dell'economia, della conseguente pseudocultura equivale all'annichilimento del carattere distintivo, è la negazione della comunicazione, è l'affossamento delle diversità che costituiscono l'unicum o il genere Homo, ovvero è anti evolutivo.
 
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view post Posted on 8/10/2014, 15:03

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L'affermazione iniziale non sono io a negarla ma i fatti e ti assicuro che non sono contento nel constatarli ma purtroppo sono lì. In quanto alla storia il discorso è un po' più complesso ma per abbreviare e essere superficiale di solito si dice che la fanno i vincitori. Prendi un libro di storia di trent'anni fa e uno di adesso. Divergono per le conoscenze più approfondite ma non solo per quello. Spiegare e interpretare un fatto accaduto rimanda a come la si pensa adesso. Non si spiegherebbero altrimenti le accuse del tempo contro De Felice e la sua lettura sul fascismo o le polemiche sui vari revisionismi. Ma per tornare alla lingua, si parla di Dante ma la divina commedia è piena di francesismi per esempio, anzi c'è tutto un canto su Arnault Daniel e il provenzale. Per la religione poi, i romani si "arrabbiavano" con i cristiani per una religione importata, ma loro stessi avevano preso a piene mani dai greci e dagli egizi. Fusaro dice che s'arrabbia non per l'inglese tout court, quello di Shakespeare infatti gli andrebbe bene, ma per la superficialità del linguaggio della tecnica e dell'economia. Giusto, ma gli americani in quello sono forti e quello ci "regalano". Per la verità non fanno molta fatica a farceli usare perchè noi stessi facciamo a gara per appropriarcene per essere à la page. (al solito dico noi italiani in generale e non parlo delle élites).
 
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view post Posted on 9/10/2014, 15:44
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Non è bello l'inglese, la musicalità delle sue parole è orribile. Una lingua piuttosto rozza e ancor più degradata nelle sue contaminazioni statunitensi di slang.

Se fossimo un popolo cosciente della propria cultura e identità non ci sarebbe nulla di male ad arricchire il nostro bagaglio culturale con l'apprendimento dell'inglese. Ma poiché noi siamo un popolo vile e scimmiottesco, l'apprendimento dell'inglese equivarrà (ci stiamo incamminando) ad un progressivo abbandono dell'italiano. Diventeremo una nazione soggiogata allo straniero, senza più né spirito e né identità collettiva.
Dovremmo imparare almeno un po’ dai francesi, che con il loro esasperante nazionalismo, dimostrano tuttavia un amore per la patria che l'italiano neanche si sogna. Traducono persino la parola computer (ordinateur) !!
Se fossimo un popolo amante e difensore del nostro idioma (l'italiano è una delle lingue più belle al mondo) non saremmo qui a discutere della "dittatura" della lingua inglese.
A cominciare dai giornalisti (salvo le grandi firme che non devono dimostrare nulla), che credono che sia tanto raffinato farcire i loro articoli con parole inglesi.
 
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view post Posted on 18/10/2014, 08:02

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Conosco bene l'inglese e il francese, un po' il tedesco e pochino il russo; ho fatto studi di linguistica generale e di filologia romanza, filologia germanica e glottologia, insomma con le lingue e la linguistica ho fatto le mie belle battaglie nel corso degli studi universitari, senza trascurare la GRAMMATICA ITALIANA di Mortara-Garavaglia e la bellissima STORIA DELLA LINGUA ITALIANA del mio veneratissimo prof BECCARIA. E proprio perchè conosco l'uso delle parole mai mi sognerei di usare impropriamente delle parole straniere nella mia lingua. Che se ne deduce? che tanti italiani che non conoscono la loro lingua tentano di ammantarsi di intellettualismo massacrando uno dei nostri più grandi patrimoni? E questo è il meno....vabbè.... quante parole straniere ho usato in questa breve dissertazione?

.... e con le parole straniere io ci lavoro... mi occupo di relazioni internazionali dove lavoro.... e sapete qual è la mia HOME PAGE quando lancio firefox (una delle schede per lo meno) www.accademiadellacrusca.it/it/pagina-d-entrata ...
 
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view post Posted on 18/10/2014, 08:31

papero

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Certamente per ogni parola inglese (non americana) che si infila nel discorso esiste il corrispondente italiano, e qualora ce ne fosse bisogno ... ci sono i neologismi (giusto?).
Non so se in Francia difendono la lingua, non solo, per nazionalismo perché non conosco la Francia, ma in Spagna è lo stesso, per ogni parola inglese c'è il suo corrispondente castigliano.

Gli inglesi hanno fatto la loro "bella" esperienza nelle Colonie, esperienza che continuano ad applicare nelle forme più o meno raffinate, ma io non sono e non voglio essere un cittadino del reame del Commonwealth.
 
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view post Posted on 20/10/2014, 10:41

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per proseguire,
un articolo sulla lingua italiana, in cui si dice che il nostro idioma è il quarto o il quinto (la precisione non è di questo mondo ...) studiato nel mondo

http://www.repubblica.it/cultura/2014/10/2...chino-98532356/
certo è che se la giornalista Laura Montanari, almeno in questo articolo su questo tema, avesse usato:
- revisione della spesa pubblica in vece di spending review
- progettazione in vece di design
- tele apprendimento in vece di e-learning
avrebbe dimostrato la differenza tra coerenza ed approssimazione

buona lettura
 
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view post Posted on 20/10/2014, 11:52
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Ed a proposito di cinesi che studiano l'italiano, fornisco anch'io un contributo: un vecchio articolo del 2011 del Sole 24 ore che ho conservato:

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-...81352_PRN.shtml

 
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