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BIRDLAND , dal 2010 al 2023

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papero62
view post Posted on 2/3/2012, 17:20 by: papero62

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2012r




Chess blues story
Di tanto in tanto Birdland va a scavare nelle radici più profonde del jazz e delle musiche che hanno contribuito a dagli forma.
La Chess Records, fondata nella seconda metà degli anni ’40 a Chicago, è stata una delle etichette fondamentali nella definizione e nello sviluppo del moderno blues elettrico urbano.
Furono appunto i fratelli Chess, Leonard e Phil - di origne ebreo polacca, a lanciarsi nell’avventura discografica nel 1947, dopo aver poco prima iniziato l’attività nell’ambito dei club musicali della Windy City gestendo il noto Macomba Lounge. Dapprima azionari di una label chiamata Aristocrat Records, i due fratelli ne divennero proprietari nel 1950, le diedero il nome definitivo e ottennero un primo grande hit quello stesso anno con il sassofonista Gene Ammons. Riccardo Bertoncelli ripercorre la storia della Chess e dei musicisti che contribuirono a renderla grande: Howlin’ Wolf, John Lee Hooker, Bo Diddles, Buddy Guy per non citarne che alcuni.
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Vite parallele: Ornette Coleman e Jimmy Giuffré
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In ricordo di Bob Brookmeyer - Trombonista, arrangiatore e compositore
Bob Brookmeyer, scomparso a metà dicembre 2011 all’età di 82 anni, è stata una figura centrale del jazz moderno per quanto riguarda la pratica del suo strumento, nonché per la scrittura e l’arrangiamento per grandi ensembles.
Era un grande studioso di armonia e composizione, oltre al trombone (specialista della versione a pistoni, ormai abbandonata nel jazz) suonava benissimo il pianoforte, si dedicò pure ad un certo punto all’improvvisazione free form.
Il suo apprendistato lo fa nell’orchestra di Claude Thorhill all’inizio dei ‘50, poi suona con Stan Getz. Nel 1954, sostituendo Chet Baker, entra nel pianoless quartet di Gerry Mulligan, il che gli darà notorietà internazionale.
Tra le collaborazioni successive ricordiamo quelle con Jimmy Giuffré, con Ray Charles e naturalmente quella con la Concert Band dello stesso Mulligan. Negli anni ’60 dirigerà pure un quintetto con il trombettista Clark Terry e scriverà molti arrangiamenti per l’orchestra di Mel Lewis e Thad Jones.
Dal 1968 e per un decennio sarà a Los Angeles, attivo principalmente come musicista di studio. Con la fine degli anni ’70 ritornerà con decisione al jazz, sarà a New York e passerà molto tempo in Europa lavorando in Germania, Danimarca, Olanda, Regno Unito. Bob Brookmeyer è stato anche un pregevole didatta, insegnante per molti anni al Conservatorio del New England di Boston dove ha formato la nuova generazione di bandleader e dove ha avuto come allieva Maria Schneider. Nell’ultimo decennio ha scritto e arrangiato principalmente per la sua New Art Orchestra con la quale ha pubblicato il suo ultimo disco qualche mese prima della scomparsa.
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Bobby Hutcherson e il moderno vibrafono jazz
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Jimmy Smith ''Midnight Special'' (1960)
Per la serie dei dischi storici che di tanto in tanto Birdland propone, Riccardo Bertoncelli ha scelto l’organista Jimmy Smith, colui che contribuì certamente a re-inventare l’organo Hammond nel jazz. Midnight Special, uscito nel 1960, è una delle perle assolute del grande catalogo Blue Note e un vero classico dell’organista, un’immersione a fondo nell’incomparabile universo sonoro del musicista qui attorniato da Stanley Turrentine (una delle prima apparizioni di rilievo del sassofonista), dal chitarrista Kenny Burrell e dal batterista Donald Bailey.
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John Lewis oltre il Modern Jazz Quartet
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John Zorn. 2011: un anno vissuto pericolosamente
Per una volta Birdland si occupa d’attualità e lo fa andando ad indagare sulle molte attività svolte durante lo scorso anno da una figura di spicco, e da sempre molto discussa, della scena musicale contemporanea: il compositore e sassofonista John Zorn. Venuto alla ribalta sulla scena downtown di New York sul finire degli anni ’70, Zorn è uno dei musicisti che più hanno marcato la musica indipendente americana degli ultimi 30 anni. Spillane, Kristallnacht, le produzioni di Naked City, Cobra, le riletture della musica da film (e di Morricone in special modo), il quartetto Masada sono solo alcuni dei progetti che l’hanno catapultato sotto i riflettori di pubblico e critica, quasi sempre dividendoli. Riccardo Bertoncelli ci guida in questo percorso zorniano del 2011, ancor più onnivoro e spregiudicato che in passato. Insomma – per dirla con l’autore di questa serie di Birdland: allacciatevi le cinture di sicurezza!
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Al Cohn, sassofonista e arrangiatore
Al Cohn è stata una figura importante del jazz bianco, un tenorsassofonista e arrangiatore nato nel 1925 a Brooklyn.
Di lui si ricorda soprattutto la storica associazione al collega di strumento (e coetaneo) Zoot Sims, con cui co-diresse un fortunato quintetto a partire dal 1956. Il gruppo era in residence all’Half Note di New York, dove si produsse regolarmente per una dozzina d’anni.
Cresciuto in una famiglia di melomani, Cohn impara sin da piccolo il pianoforte per poi passare agli strumenti a fiato. La folgorazione l’ha con l’ascolto alla radio di Lester Young, per cui si convince a passare dal clarinetto al sax tenore. Un talento, il suo, che si esprime oltre che come strumentista anche come arrangiatore e compositore. Dopo le collaborazioni con le orchestre di Georgie Auld e Buddy Rich, è ingaggiato nel 1947 nel Second Herd di Woody Herman dove diventerà - accanto a Stan Getz, Zoot Sims e Serge Chaloff - uno dei Four Brothers. Prima di lanciarsi nell’avventura con Zims, lavorerà con Artie Shaw, Horace Silver, Max Roach.
La sua passione per l’arrangiamento lo porterà – tra gli altri - al fianco di Gerry Mulligan e Quincy Jones, nonché a lavorare intensamente per produzioni cinematografiche e televisive.
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Andrew Hill, pianista e arrangiatore
Figura del tutto originale del jazz degli anni ’60, a metà strada tra il primo jazz moderno e i venti avanguardisti del periodo successivo, Andrew Hill si è spento nel 2007 a 76 anni.
Era originario di Haiti ma si trasferì ancora bambino con la famiglia a Chicago. Lì si fece le ossa accanto alle grandi figure del jazz della “Windy City”, iniziò a lavorare come leader e incise i primi dischi a suo nome a metà anni ’50. Dopo essere stato per diverso tempo collaboratore di Roland Kirk, nel 1963 è notato dalla Blue Note per la sua vena pianistica, in diretta discendenza da Bud Powell e Thelonious Monk, ma anche per la personale concezione della scrittura jazzistica, debitrice in questo caso almeno in parte delle idee di Charles Mingus. Alcuni suoi dischi pubblicati negli anni ’60 – come il capolavoro Point of departure - restano tra le perle del jazz del periodo.
Andrew Hill ha continuato a sviluppare la sua musica negli anni ’70 e ’80 (tra l’altro con pregevoli produzioni, soprattutto quelle per l’italiana Soul Note) ma è sul finire di carriera – con il suo trasferimento a New York negli anni ’90 – che è tornato con decisione sotto i riflettori. I CD Dusk (1999) e Times Lines (2006, ancora per Blue Note) sono, fra gli altri, una sorta di testamento della sua grande arte.
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Paul Bley with Gary Peacock (registrazioni 1963 e 1969, pubblicato 1970)
Registrato in momenti diversi nella seconda metà degli anni ’60 il disco Paul Bley with Gary Peacock è stata una delle primissime pubblicazioni della ECM. La prima sessione è del 1963, dove è determinante anche l’apporto di un non menzionato, ma non per questo meno importante Paul Motian alla batteria. Gli ultimi brani della raccolta, registrati qualche anno dopo, vedono invece dietro i tamburi Bill Elgart. Un documento decisivo per l’evoluzione del classico piano jazz trio nella scia di Bill Evans!
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Hampton Hawes, pianista: il 'bebop' via West Coast
Con una formazione praticamente da autodidatta, Hampton Hawes è stato uno dei pianisti di punta del jazz californiano a partire dalla seconda metà degli anni ’40. Iniziò giovane a lavorare con i grandi del periodo: Dexter Gordon, Wardell Gray, poi ancora Shorty Rogers e Red Norvo. Tappa importante della sua carriera fu pure il sodalizio con il sassofonista Art Pepper nei primi anni ’50. Formerà – dopo il servizio di leva - con il bassista Red Mitchell il suo primo trio, formazione che diventerà centrale nel seguito della sua vicenda artistica.
Come per altri colleghi, la vita del pianista fu segnata dalla dedizione alle droghe che lo porteranno ad una lunga condanna nel 1959. Con convinzione, sì batté da subito per ricevere la grazia presidenziale, che effettivamente arrivò da Kennedy nel 1963. Sarà quello l’inizio di una seconda parte di carriera che lo vedrà impegnato non più come silema ma con proprie formazioni fino alla scomparsa nel 1977.
Hampton Hawes resta il maggior rappresentante del pianismo bop della West Coast e ci ha lasciato numerose pregevoli testimonianze discografiche della sua arte.
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Duke Ellington, le suites
Al di là dei brani singoli, spesso scritti per i suoi solisti, Duke Ellington ha sempre mirato a qualcosa di più complesso nel suo lavoro di compositore e arrangiatore, con il segreto fine di avvicinare il jazz alle concezioni formali e strutturali della musica colta. Sulla base di questo ideale nascono le sue suites orchestrali, dalla prima ben nota Black Brown & Beige alle successive, tra queste Far East, Liberian, Latin American, Togo Brava suite… Questa ricerca porterà poi Ellington alla concezione dei tre Sacred Concerts che malgrado il titolo presentano pure la tipica struttura della suite.
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Sirene del jazz italiano
La bella voce è solo l'involucro della vera tentazione delle sirene omeriche, sapere più cose è la tentazione originaria dell'onniscienza. Così da sempre la voce umana esplora nuovi spazi musicali per compiere viaggi oltre il tempo. Sirene è un tentativo di etichettare le nuove voci della scena musicale italiana, che dal jazz hanno attinto soprattutto libertà espressiva e radicalismo, aggirando la strada maestra di scat e swing come riti usurati. Sulla scia di diverse straordinarie seminatrici come Maria Pia De Vito e Cristina Zavalloni troviamo così la variegata scena di trasversalità, un panorama di repertori e riferimenti, con al centro, irrinunciabile, l’improvvisazione. Se Chiara Liuzzi si confronta, lontana dagli stereotipi jazzistici, con puri “oggetti sonori”, Silvia Pellegrino si muove tra filosofia zen e suggestioni africane. Se Marta Raviglia svolazza leggera e ironica quanto rigorosa in una logica creativa che dilata e confonde le tracce di riferimento, Silvia Donati, altra interprete di spiccata personalità e apertura culturale, riconosce nel jazz un punto di partenza imprescindibile, salvo poi prendersi la libertà di fare a pezzi con grande classe i più celebri standard dell’American Songbook. Un’istantanea sulla vocalità italiana al femminile vicina al jazz, che potrà risultare un po’ mossa, tanto la situazione è in continuo divenire.
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Pianisti jazz - Gordon Beck
Gordon Beck (1936 – novembre 2011) è stato un pianista inglese tra i maggiori esponenti di una linea interpretativa europea della quale fa parte anche il “nostro” George Gruntz. Scomparso da poco tempo, Maurizio Franco gli dedica due puntate di Birdland ripercorrendo alcuni dei momenti salienti della sua carriera, dalla partecipazione all European Jazz Machine del sassofonista Phil Woods tra fine anni ’60 ed inizio anni ’70 (dove prese il posto proprio di Gruntz), al sodalizio con la cantante Helen Merrill, alle collaborazioni con il violinista Dider Lockwood e con il chitarrista Allan Holdsworth. Beck era un londinese, arrivò alla musica giovane - prima studente di violino poi di pianoforte – e fece i suoi primi passi da professionista in seno a diversi gruppi della Londra dei primi anni ’60. Il celebre club Ronnie Scott fu la sua palestra principale dove spesso incontrò i musicisti provenienti da Oltreoceano. Ricordiamo in tal senso la partecipazione ai gruppi di Lee Konitz, più tardi con Charles Tolliver, Gato Barbieri, Jack de Johnette, Gerry Mulligan e molti altri. Ma si distinse pure nell’ambito della scena europea, molto apprezzato in patria e soprattutto in Francia dove stabilì delle importanti relazioni artistiche con musicisti di prima fila come Tony Oxley, Ian Carr (fu pure membro della band di jazz-rock Nucleus), Ron Mathewson, Henri Texier, Daniel Humair, Jean François Jenny – Clarke. Gordon Beck è stato un musicista polivalente, dalla solidissima preparazione tecnica e dalla musicalità trasversale che affondava le radici nel pianismo di Bud Powell e Red Garland e arrivava alle influenze di un Bill Evans. Ha spesso utilizzato, in ambito fusion e jazz-rock, sia il piano elettrico che il sintetizzatore.
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Pianisti jazz - Richie Beirach
Nuovayorkese purosangue, il pianista Richie Beirach (1947) mostra nella sua paletta espressiva le migliori influenze di esimi colleghi quali Bill Evans e McCoy Tyner, ma soprattutto di Paul Bley. Lirismo e grande libertà armonica i due estremi entro cui si muove il suo pianismo, spesso sottovalutato. Solidi studi classici alle spalle, ad un certo punto decide di dedicarsi totalmente al jazz entrando alla Berklee School di Boston a 23 anni. Avrà quali insegnanti Stan Getz (che accompagnerà spesso), Dave Holland e Jack DeJohnette ed inizierà subito dopo – siamo nei primi anni ‘70) il sodalizio con Dave Liebman nel gruppo Lookout Farm. Il successo arriverà con un'altra band montata insieme a Liebman, il celebrato Quest insieme anche al bassista Cecil McBee e al batterista Billy Hart. Ricordiamo pure le sue preziose collaborazione con John Scofield, John Abercrombie, Chet Baker e molti altri nomi di primo piano del jazz moderno. Raffinato improvvisatore, nello stile pianistico di Beirach affiora spesso l’influenza della musica classica e della musica di matrice europea del ‘900.
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Dizzy Gillespie e la Big Band
John Birks Gillespie, detto Dizzy, nato in South Carolina nell’ottobre del 1917, è stato uno dei musicisti più importanti nella definizione del jazz moderno e in particolare del bebop, lo stile che diventerà riferimento imprescindibile nello sviluppo successivo della musica di matrice afro-americana. Di grande rilievo sin dai primi anni ’40 è il suo lavoro assieme a Charlie Parker in piccole formazioni che hanno lasciato il segno nella storia del jazz. Ma sin dal 1946 (e fin all’inizio degli anni ’60) forse non tutti ricordano che Gillespie organizzò regolarmente delle big bands dove sperimentava il nuovo stile all’interno dell’organico della classica grande orchestra jazz. Franco Fayenz in queste due puntate di Birdland concentra la sua attenzione su questo specifico ambito della vicenda artistica di Gillespie: le ruvide e spigolose sonorità del bebop incontrano l’ampia paletta cromatica della grande orchestra. L’occasione di puntare i riflettori sulle big bands di Dizzy Gillespie è data dalla recente pubblicazione per United Archives dell’integrale delle registrazioni in studio realizzate dalle varie edizioni della grande orchestra del trombettista tra il 1946 e il 1960.
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Thelonious Monk a trent'anni dalla scomparsa
Nel 1982 muore all’età di 65 anni e dopo un’ultima parte di esistenza passata nel più assoluto ritiro Thelonious “Sphere” Monk, pianista, compositore, bandleader statunitense.
Carattere eccentrico e scontroso, Monk è un musicista che non lascia indifferenti e che ha fatto e fa tuttora discutere. L’ardita concezione armonica e melodica della sua musica, che si riflette pure nel suo originale stile pianistico, resta una delle principali peculiarità di un artista che ha avuto un’importanza centrale per il jazz moderno sin dagli anni ‘40.
A trent’anni dalla scomparsa Birdland dedica a Monk una serie di trasmissioni speciali. Queste prime due, curate da Franco Fayenz, si concentrano su uno dei capolavori assoluti lasciati dal pianista, il concerto dal vivo della sua orchestra alla Town Hall di New York il 21 febbraio del 1959: repertorio scelto, con alcuni grandi classici quali Off Minor, Monk’s Mood o Crepuscule with Nellie interpretati da una band stellare dove compaiono tra gli altri Donald Byrd (tromba), il fido Charlie Rouse (tenore), Phil Woods (alto) e Pepper Adams (baritono).
Nella prima trasmissione spazio alla registrazione originale, nella seconda alla rilettura realizzata qualche anno or sono dalla Lydian Sound Orchestra dell’arrangiatore e compositore italiano Riccardo Brazzale.
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Marco Fumo rilegge il ragtime e il jazz delle origini
Franco Fayenz, si occupa, in questa puntata, di jazz delle origini e in particolare del lavoro che da più di un trentennio il pianista italiano Marco Fumo ha intrapreso sui materiali originali del ragtime e più in generale sulle forme arcaiche del jazz.
Abruzzese di origine (è nato a Teramo nel 1946), Fumo ha una formazione classica culminata con il diploma a Santa Cecilia. Il jazz lo conosce sin da ragazzo ma solo negli anni '80, accanto alla sua carriera di interprete classico (che lo ha visto tra l'altro collaborare con Nino Rota e Ennio Morricone) e di didatta, ha potuto sviluppare il suo interesse per la musica afro-americana. Dallo studio del ragtime la sua indagine si è ampliata agli altri stili pianistici della prima epoca del jazz e alle tante influenze che hanno contribuito alla definizione del jazz. Nel suo repertorio figurano brani di musicisti noti quali Scott Joplin, Jelly Roll Morton, Fats Waller, alcune "chicche" del giovane Gershwin, rari pezzi di Ellington e alcune composizioni di Bix Beiderbecke. Al tempo stesso il suo lavoro ha permesso di riscoprire l'opera di altri autori oggi in parte dimenticati quali Tom Turpin, James Price Johnson, Stephen Foster, James Scott.
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"Il mio jazz" - Enrico Pieranunzi racconta e si racconta
Nato a Roma nel 1949, Enrico Pieranunzi è da molti anni tra i protagonisti più noti ed apprezzati della scena jazzistica internazionale. Pianista, compositore, arrangiatore, ha registrato più di 70 CD a suo nome spaziando dal piano solo al trio, dal duo al quintetto e collaborando, in concerto o in studio d’incisione, con Chet Baker, Lee Konitz, Paul Motian, Charlie Haden, Chris Potter, Marc Johnson, Joey Baron.
Pluripremiato come miglior musicista italiano nel “Top Jazz”, annualmente indetto dalla rivista “Musica Jazz” (1989, 2003, 2008) e come miglior musicista europeo (Django d’Or, 1997) Pieranunzi ha portato la sua musica sui palcoscenici di tutto il mondo esibendosi nei più importanti festival. Proprio in questi giorni, dal 27 marzo al 1° aprile, il suo nuovo trio che si completa con Scott Colley al contrabbasso e Antonio Sanchez alla batteria è ospite del Village Vanguard di New York per presentare al pubblico americano il cd Permutation.
Nelle 10 puntate di questa serie speciale di Birdland, Pieranunzi ci offre la possibilità d'indagare la storia, i protagonisti e i caratteri stilistici del jazz dalla sua particolare e privilegiata prospettiva, attraverso aneddoti e riflessioni che suggeriscono ascolti tratti dalla sua discografia e da quella dei molti nomi illustri che ha avuto la fortuna d'incontrare nel corso della sua lunga carriera. Un percorso intrigante e illuminato, qua e là, da alcune preziose chicche inedite e nascoste, finora, nel suo archivio personale.
le puntate:
01 - Johnny Griffin 26-03-2012
02 - Art Farmer 27-03-2012
03 - Chet Baker 28-03-2012
04 - Lee Konitz 29-03-2012
05 - Charlie Haden 30-03-2012
06 - Paul Motian 02-04-2012
07 - Bill Evans 03-04-2012
08 - Wayne Shorter 04-04-2012
09 - Trio Pieranunzi – Johnson - Baron 05-04-2012
10 - Trio Pieranunzi – Colley - Sanchez 06-04-2012
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Thelonious Monk "Alone in San Francisco" (1960)
Nel 1982 muore all’età di 65 anni e dopo un’ultima parte di esistenza passata nel più assoluto ritiro Thelonious “Sphere” Monk, pianista, compositore, bandleader statunitense.
Carattere eccentrico e scontroso, Monk è un musicista che non lascia indifferenti e che ha fatto e fa tuttora discutere. L’ardita concezione armonica e melodica della sua musica, che si riflette pure nel suo originale stile pianistico, resta una delle principali peculiarità di un artista che ha avuto un’importanza centrale per il jazz moderno sin dagli anni ‘40.
A trent’anni dalla scomparsa Birdland dedica a Monk una serie di trasmissioni speciali.
In questa puntata unica Maurizio Franco si concentra sull’album Alone in San Francisco (1960), registrato alla Fugazi Hall della città californiana. Si tratta in assoluto di una delle più belle produzioni in solitaria di Monk, sia dal punto di vista musicale che da quello prettamente tecnico, con un suono pieno e rotondo del pianoforte che per una volta rende totalmente giustizia della grande qualità della sua ricerca timbrico-armonica.
Accanto ad alcuni suoi classici come Blue Monk o Ruby my dear, il disco propone un paio di gemme mai più registrate da Monk come il “free blues” Round Lights o la cover di There's danger in your eyes, cherie, vecchio hit degli anni ’20.
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"Il jazz in esilio" - Hugh Masekela
Hugh Masekela (1939) è una delle più significative personalità della musica sudafricana sin dai secondi anni ‘50. Trombettista, flicornista, compositore, arrangiatore aveva già da giovane una grande cultura musicale. Aveva potuto ascoltare alla radio il jazz statunitense, aveva iniziato sin da bambino a suonare il pianoforte e a 14 anni aveva ricevuto finalmente la sua prima tromba, che imparò a suonare nella banda cittadina di Johannesburg.
Il successo arrivò presto quando nel 1958 suonò dapprima con un gruppo sudafricano molto famoso, i Manhattan Brothers, e subito dopo fu scritturato nel musical King Kong al quale partecipava un’altra stella nascente della musica sudafricana, Miriam Makeba, che sarà poi sua moglie.
Con altre future personalità della musica nazionale, fra i quali il pianista Dollar Brand (poi diventato Abdullah Ibrahim) e il batterista Makaya Ntsoko, fondò nel i Jazz Epistles che nel 1959 fu il primo gruppo africano a registrare un disco di jazz.
Nel 1960, dopo il tremendo massacro di Sharpeville, Masekela decide di rompere con il regime dell’apartheid e, come molti altri suoi colleghi musicisti, scelse la via dell’esilio.
Marcello Lorrai ripercorre la storia coraggiosa di uno dei musicisti-simbolo della resistenza al regime razzista sudafricano, che conobbe un grande successo internazionale e che non mancò di rientrare in patria con la liberazione di Mandela e la sua elezione a capo dello stato.
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Il jazz cameristico di Andy Sheppard
Nato nel 1957, Andy Sheppard è oggi una delle figure di maggiori spicco del jazz britannico contemporaneo. Pregevole stilista al sax tenore e soprano, ha lavorato e lavora tuttora con nomi di grande prestigio della scena internazionale: George Russell, Gil Evans, Steve Swallow, Carla Bley, ma anche Elvis Costello, Nigel Kennedy, il Quartetto Balanescu. Da molti anni Sheppard si propone anche come apprezzato e sensibile leader di proprie formazioni, quelle più ridotte – il duo, il trio – sembrano essere i format a lui più congeniali.
Franco Fayenz in questa puntata unica di Birdland ci introduce nell’unverso poetico di Sheppard con ascolti da un disco prodotto qualche anno or sono in duo con la pianista italiana Rita Marcotulli e dal recente CD Trio Libero, registrato con il bassista Michel Benità e il batterista Sebastian Rochford per ECM all’Auditorio della RSI, in collaborazione con Rete Due.
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Bill Evans, il periodo “Riverside”
Quando Bill Evans sbarca a New York nel 1954 è praticamente uno sconosciuto negli ambienti del jazz. Una formazione in pianoforte e flauto, teoria musicale, composizione all’Università di Lousiana, dal 1950 un inizio di carriera accanto ad uno scopritore di talenti come il sassofonista Herbie Fields (che aveva già presentato nelle sue band un certo Miles Davis) e poi un periodo di tre anni di servizio militare a Chicago, nella Fifth Army. Ma nella Grande Mela non tarda a farsi notare, prima con Tony Scott ed in seguito nel giro dell’arrangiatore e compositore George Russell, cui non sfugge la straordinaria padronanza del pianoforte del suo pupillo, nonché le innovative soluzioni armoniche, melodiche e ritmiche che Evans ha già sviluppato. Del grande pianista americano che è universalmente riconosciuto come uno dei pilastri della moderna evoluzione del jazz, Claudio Sessa passerà in rassegna tutto il primo periodo di produzione discografica per l’etichetta Riverside, fondata nel 1953 dai produttori Orrin Keepnews and Bill Grauer. Dagli esordi (il primo LP è del 1956, con un titolo impegnativo quale New Jazz Conceptions) e fino al 1963 - anni che lo vedono anche per un periodo membro del gruppo di Miles Davis - Bill Evans produrrà una quindicina d’album, alcuni dei quali (quelli in trio con Scott La Faro e Motian ad esempio) vere pietre miliari del jazz moderno. Jim Hall, Freddie Hubbard, Ron Carter, Zoot Sims, Paul Chambers e molti altri sono ulteriori compagni di viaggio in un’avventura discografica che è appena stata ripubblicata in edizione integrale con aggiunta di inediti e rarità.
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Gil Evans (1912-1988), vita e opera nel centenario della nascita
Nel centenario della nascita dedichiamo questa serie di Birdland, a cura di Claudio Sessa, ad una delle figure di arrangiatore e compositore più significative del jazz moderno. Gil Evans - canadese, nato a Toronto come Ian Ernest Gilmore Green il 13 maggio 1912 – ha firmato nella sua lunga carriera alcune delle pagine più importanti del jazz dalla metà degli anni ’50 in avanti. Dopo aver lavorato con Claude Thornhill negli anni ’40, è vicino agli ambienti del bop e, sul finire di quel decennio, soprattutto a quelli del cool jazz. Conosce George Russell, Lee Konitz, Charlie Parker e soprattutto Miles Davis con il quale, insieme ad un inconsueta formazione – un nonetto – produce una serie di registrazioni divenute poi famose come Birth of the cool. La collaborazione con Davis si rafforzerà più tardi con la produzione di alcuni album di jazz orchestrale tra i più importanti degli anni ’50 (Miles Ahead, Sketches of Spain e una rivisitazione di Porgy & Bess di Gershwin). Dal 1957 Gil Evans produrrà dischi di sempre pregevole qualità con la propria orchestra, fino alla svolta elettrica degli anni ’70 con la quale si apre il suo ultimo periodo creativo. Di rilevanza in questo periodo l’apertura verso il rock e la fusion, in particolare con la rivisitazione orchestrale della musica di Jimi Hendrix. Nella sua carriera Evans ha contribuito in maniera decisiva a metter in evidenza personalità di solisti poi affermatisi individualmente. Tra questi Gerry Mulligan, Max Roach, Steve Lacy, Cannonball Adderley, Wayne Shorter, Elvin Jones, Dave Sanborn, George Adams. Ricordiamo pure la collaborazione con Sting proprio prima della scomparsa nel 1988. A Gil Evans Rete Due dedicherà pure una settimana speciale nella fascia pomeridiana di Rete 2-5 tra il 4 e l’8 giugno. Oltre alla riproposta di questo ciclo di Birdland, Gil Evans sarà protagonista dello spazio riservato all’interprete della settimana, nonché al centro di considerazioni, ricordi, curiosità di musicisti, addetti ai lavori e amici che l’hanno conosciuto da vicino.
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L’arte pianistica di Bobo Stenson
La sua musica è come una danza poetica ed evocativa fatta di leggerezza, forte attenzione alla timbrica e all’analisi introspettiva. Il pianismo di Bobo Stenson è concentrato soprattutto sulla melodia, che procede spesso in modo non lineare, con lampi di luce e zone d’ombra. Il tocco è morbido e brillante, il controllo della tastiera tende a smussare i contrasti e a dare un’impronta di classicismo. Nato nel 1944 a Västeras in Svezia, Bobo Stenson ha incominciato a suonare all’età di dodici anni, affascinato da figure di pianisti quali Bud Powell, Wynton Kelly e Red Garland. Trasferitosi a Stoccolma, alla fine degli anni Sessanta ha accompagnato alcuni importanti musicisti americani in tournée attraverso la Scandinavia, come Dexter Gordon, Sonny Rollins, Stan Getz, George Russell. Ma forse l’esperienza di formazione più significativa è stata con Don Cherry, con il quale ha spesso suonato dalla fine degli anni Sessanta, in diverse circostanze, fino alla sua morte. Negli anni Stenson si è rivelato un formidabile musicista che ha saputo suscitare un notevole interesse per le sue qualità di raffinato improvvisatore. Numerose le sue incisioni (particolarmente con ECM) in oltre trenta anni di carriera, a partire dal 1971 quando pubblica l’album Sart con Jan Garbarek, Terje Rypdal, Arild Andersen e Jon Christensen. Pochi mesi dopo seguirà la sua prima incisione in trio, poi l’acclamata collaborazione con Jan Garbarek, in un quartetto che sarà uno dei gruppi jazz più popolari dei primi anni ’70. Ricordiamo pure, a cavallo tra anni ’80 e ’90, il prezioso contributo di Stenson nel rilanciato gruppo di Charles Lloyd, la sua presenza nel quartetto del trombettista polacco Tomasz Stanko e a partire dalla metà degli anni ’90 una serie di registrazioni in trio (con Anders Jormin al basso, Jon Christensen o Paul Motian alla batteria) che l’hanno consacrato definitivamente tra i maggiori pianisti jazz del nostro tempo. All’Auditorio RSI e in collaborazione con Rete Due, il trio di Bobo Stenson ha registrato i suoi ultimi due CD per ECM: Cantando è stato messo in commercio nel 2008 mentre l’ultima incisione dello scorso anno è in attesa di pubblicazione.
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Young Thelonious
Nel 1982 muore all’età di 65 anni e dopo un’ultima parte di esistenza passata nel più assoluto ritiro Thelonious “Sphere” Monk, pianista, compositore, bandleader statunitense. Carattere eccentrico e scontroso, Monk è un musicista che non lascia indifferenti e che ha fatto e fa tuttora discutere. L’ardita concezione armonica e melodica della sua musica, che si riflette pure nel suo originale stile pianistico, resta una delle principali peculiarità di un artista che ha avuto un’importanza centrale per il jazz moderno sin dagli anni ‘40. A trent’anni dalla scomparsa Birdland dedica a Monk una serie di trasmissioni speciali. In questa serie Franco Fayenz si concentra sulla produzione del giovane pianista che va dai primi anni’40 fino a metà circa del decennio successivo, dagli albori del be-bop dunque fino al momento della prima maturità. Lo sentiremo accanto agli altri protagonisti della rivoluzione bop – Charlie Christian, Dizzy Gillespie, Art Blakey, Charlie Parker - in molti dei suoi classici e nelle riletture sempre pregnanti ed audaci degli standards che prediligeva.
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Martial Solal, pianista
Di nazionalità francese, nato ad Algeri nel 1927, Martial Solal è uno dei maggiori pianisti jazz europei in attività. Cresciuto in una famiglia di musicisti, inizia a suonare il pianoforte giovanissimo e diventa professionista alla metà degli anni ’40, trasferendosi poi a Parigi. La sua raffinatissima tecnica, il gusto per la ricerca armonica e la sua vena di compositore sono le caratteristiche principali di questo musicista da sempre acclamatissimo nel suo paese natale, sul punto nei primi anni ’60 di intraprendere una promettente carriera internazionale (cui rinuncia per dedicarsi alla famiglia) e finalmente molto sottostimato all’estero. Nei primi anni di attività lo ricordiamo prezioso sideman accanto a Django Reinhardt e agli americiani di Parigi: Sidney Bechet et Don Byas. E’ poi alla testa di un quartetto con Roger Guerin alla tromba, Gilbert Rovère al basso e a Daniel Humair alla batteria, verso la fine degli anni ’50 di una formazione con Guy Pedersen al basso e ancora Humair alla batteria che – alla stregua di quanto proposto da Bill Evans sull’altra sponda dell’Atlantico – contribuisce a rivoluzionare il concetto classico del trio jazz. Il produttore George Wein lo invita nel 1963 a Newport, dove suona in trio con Teddy Kotick al basso e Paul Motian alla batteria, significativamente due ex musicisti di Bill Evans. Seguiranno le esibizioni in altre grandi città nordamericane, a Mosca, Venezia, Berlino. E’ la consacrazione di un musicista che ha lasciato il segno anche come compositore - con una personale concezione che lo inquadra a suo modo, in un ideale incontro tra jazz e musica accademica, nella corrente della third stream - e in anni più recenti pure come direttore di sue grandi formazioni quali la Dodecaband. Solal è noto anche come compositore di musiche per la TV e il cinema, con più di una ventina di partiture al suo attivo. Tra queste le colonne sonore per A’ bout de souffle di Jean-Luc Godard e Il processo di Orson Welles.
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In ricordo di Sam Rivers – 1923/2011
Sam Rivers è stata una vera e propria leggenda della New Thing degli anni ’60, leader di numerosi gruppi di prima grandezza del periodo. Sassofonista, flautista, compositore - dopo essere stato accanto a Miles Davis, Charles Mingus, Andrew Hill, Cecil Taylor - ha diretto proprie band di cui hanno fatto parte Dave Holland, Chico Freeman, Steve Coleman, Don Pullen, George Adams, Cecil McBee. Era nato in Oklahoma nel 1923 ed è scomparso alla fine dello scorso mese di dicembre (2011 ndr.) all’età di 88 anni. Sam Rivers ha tenuto un paio di memorabili concerti in Ticino, il primo a Trevano - nei suoi anni di maggior successo - insieme al proprio quartetto, l’ultimo nel 2003 allo Studio 2 della RSI assieme al trio del trombettista Steven Bernstein con il progetto Diaspora Blues. Franco Fayenz ricorda in questa serie di Birdland la figura di Rivers, un musicista che ha marcato la vicenda della musica afroamericana degli ultimi 50 anni e che diceva di sé: “Suono la storia del jazz perché l’ho attraversata tutta”.
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Etta James, un ricordo
Etta James è scomparsa alla fine dello scorso mese di gennaio (2012 ndr), aveva 74 anni.
La sua è stata una lunghissima carriera di cantante avviata giovanissima quando ascoltava ancora Bille Holiday e Little Richard. Il jazz ma pure il rock e il rhythm & blues sono stati gli elementi in cui è cresciuta musicalmente.
Sarà Johnny Otis a lanciarla tra la fine dei ’50 e l’inizio dei ‘60, dapprima con il trio The Creolettes poi come solista e con il nome d’arte che conosciamo, ottenuto dall’inversione del suo vero nome Jamesetta Hawkins.
Tra i suoi grandi successi ricordiamo oltre all’indimenticabile “At Last” del 1961 anche “You can Leave your Hat On” scritta da Randy Newman nel 1972 e poi ripresa da Joe Cocker a metà anni ’80.
Riccardo Bertoncelli passerà in rassegna le tappe fondamentali della carriera di questa grande cantante che ha vinto quattro “Grammy” e che è stata inserita nella “Rock & Roll” e nella “Blues Hall of Fame”.
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1962: jazz e bossa nova cinquant’anni dopo
Nell’aprile del 1962 usciva Jazz Samba di Stan Getz, scintilla iniziale del lungo flirt tra il jazz e i vari generi della musica brasiliana, bossa nova e samba in particolare. Sarà uno degli album più popolari e venduti di tutta la storia del jazz e fungerà da esempio irrinunciabile per tutti i jazzisti che in seguito si confronteranno con il Brasile musicale. Jazz Samba è un’opera a quattro mani concepita dal grande sassofonista insieme al chitarrista Charlie Byrd. Quest’ultimo era tornato da un soggiorno in Brasile del 1961 con una pila di dischi sottobraccio e con l’idea di proporre la nuova musica di João Gilberto, Baden Powell e altri - con i quali aveva avuto occasione di suonare - ai produttori statunitensi. Non ebbe inizialmente grande successo, neppure presso i musicisti di New York con i quali tentò di suonarla, troppo abituati allo swing e poco disponibili a sintonizzarsi con la tipica batida della bossa nova inaugurata poco tempo prima – era il 1959 – dal brano Chega de Saudade. Fu Stan Getz, che stava attraversando un momento di crisi artistica, a raccogliere la sfida: con Byrd e una sezione ritmica finalmente adeguata registrò il disco a Washington in poche ore. La produzione fu affidata a Creed Taylor della Verve: prima che fosse pubblicato espresse i suoi dubbi su un solo brano, quel Desafinado che poi ebbe uno straordinario successo e divenne l’emblema stesso dell’album. Marcello Lorrai, partendo da Jazz Samba, ritraccia la storia e i momenti più significativi di questo grande incontro tra il jazz e i ritmi del Brasile, altro straordinario esempio di quello che è il sincretismo tipico della musica di matrice afro-americana.
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Shelly Manne
Una grande intelligenza musicale ed un’unica capacità di adattarsi alle più disparate situazioni musicali. Sono due tratti della personalità del batterista, compositore, arrangiatore e bandleader Shelly Manne (1920-1984), newyorkese di nascita ma “westcoastiano” d’adozione.
Grande stilista del suo strumento, in grado di affrontare le più ardue sfide sonore, leader di gruppi molto popolari e al tempo stesso richiestissimo sessionman in registrazioni di musica pop e colonne sonore, Shelly Manne ebbe due fondamentali esperienze formative - con le orchestre di Stan Kenton e Woody Herman – e soprattutto una miriade di piccole formazioni dove la sua abilità a dialogare ed il gusto unico per le sonorità hanno potuto mettersi in mostra al meglio.
Sotto l’influenza dapprima di Jo Jones, poi di Max Roach e Kenny Clarke, infine dei giovani Elvin Jones e Tony Williams, il drumming di Shelly Manne l’abbiamo apprezzato a fianco praticamente di tutti i più importanti protagonisti del jazz moderno, da Sonny Rollins a Bill Evans, da Art Pepper a Jimmy Giuffré per non citarne che pochi.
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Gil Evans Orchestra feat. Roland Kirk: Live in Dortmund 1976
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David Murray
Polistrumentista debordante, abilissimo al sax tenore e tra i pochi eredi plausibili dell’inarrivabile magistero tecnico di Eric Dolphy al clarinetto basso, a partire dalla metà degli anni ’70 David Murray si è costruito un’invidiabile carriera combinando abilmente l’eredità del free jazz a una lunga tradizione che riporta a New Orleans.
Musicista centrale nelle vicende del jazz degli ultimi trent’anni, David Murray è nato nel 1955 in California. Giunto a New York giovanissimo, verso la metà degli anni '70, si segnalò ben presto negli ambienti del jazz d'avanguardia per uno stile già personale nel quale si sintetizzava un po' tutta l'eredità dei grandi tenorsassofonisti moderni, da Sonny Rollins a Albert Ayler.
Murray ha saputo attraversare contesti diversissimi, dal free funk di James Blood Ulmer fino alle più avventurose intersezioni tra jazz, hip hop, gospel, sonorità africane e dei caraibi. Tappe importanti del suo percorso artistico sono la fondazione nel 1976 del leggendario World Saxophone Quartet, la creazione nel 1982 di un proprio ottetto e poco dopo di una big band, formazioni con le quali di tanto in tanto lavora ancor oggi. Altri progetti di peso sono stati Fo Deuk Revue (incontro con la tradizione e la moderna musica senegalese), Creole Project (con musicisti delle Antille) e Speaking in Tongues (omaggio alla tradizione gospel, con la cantante Fontella Bass). Più di recente è persino arrivato ad ipotizzare una sorta di “opera-musical” dedicata alle origini africane del poeta Aleksandr Pushkin, ha collaborato con la star del pop-soul Macy Gray e con il poeta e scrittore Ishmael Reed.
Legato inizialmente all'etichetta italiana Black Saint, Murray ha poi intensificato e diversificato in modo impressionante un' attività discografica che lo vede a tutt'oggi presente in quasi trecento produzioni.
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Il jazz e il “mal di vivere”
La vicenda del jazz è zeppa di storie romantiche, avventurose, ironiche ma anche tristi e drammatiche, dove i protagonisti – al di là della vicenda prettamente musicale – fanno emergere le loro debolezze e in fin dei conti un mal de vivre spesso legato alla loro condizione di marginali in un società a vari livelli discriminante come quella statunitense del periodo postbellico.
Gli esempi - per non citarne che alcuni - di Charlie Parker e di Art Pepper, di Lester Young e Chet Baker, personalità fragili e segnate da vissuti non certo facili, sono significativi in tal senso. Un ambiente - quello del jazz dell’immediato dopoguerra - legato a doppio filo ai mondi della droga e della prostituzione, con l’alcool a farla da padrone nei ritrovi e nei club dove nasceva la nuova musica. Senso di frustrazione e volontà di auto annientamento facevano spesso capolino in molti musicisti la cui arte non era debitamente riconosciuta.
Franco Fayenz ci aiuta a ricordare in questo ciclo di trasmissioni due tormentati musicisti degli anni ’50 che non ebbero la fortuna che avrebbero meritato.
Tony Fruscella, trombettista
Gran bel suono, fraseggio limpido e sicuro, crebbe in orfanatrofio, registrò un solo disco a suo nome nel 1955 dopo le iniziali collaborazioni con Getz, Mulligan, Parker e Jimmy Smith. Droga e alcol lo ridussero al ben presto silenzio e morì dimenticato nel 1969.
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Tina Brooks, sassofonista
(il nome d’arte deriva da “Teeny”, suo nomignolo da bambino). Nato nel 1932 e scomparso a soli 42 anni, cessò praticamente l’attività già nei primi anni ’60. Collaborazioni con Jimmy Smith (contribuì ad alcuni dei suoi più bei dischi), Freddie Hubbard e poi ancora Jackie McLean e Freddie Redd, poi la frustrazione di alcune sedute di registrazione a proprio nome per Blue Note di cui una soltanto fu pubblicata all’epoca. Penalizzato da un carattere troppo debole ed introverso, Brooks morì nel 1974 distrutto dalla dipendenza dall’eroina.
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Esbjörn Svensson, pianista
Pianista svedese nato nel 1964 e scomparso tragicamente durante un’immersione subacquea (sua grande passione) nel giugno del 2008, Esbjörn Svensson è stato uno dei musicisti più influenti del jazz europeo nel decennio a cavallo tra XX e XXI secolo. Dotato di una tecnica eccellente, di un’ispirazione musicale che lo portava a suonare quasi esclusivamente la musica che componeva, Svensson ha trovato nel trio con contrabbasso e batteria la sua più congeniale forma d’espressione. Rinnovando la tradizione dall’interno, aprendosi a ritmi e sonorità del rock, utilizzando l’elettronica in maniera parca ma ben messa a fuoco, il suo trio ha dato un nuovo e decisivo impulso a questo classicissimo organico del jazz. Formazione solidissima – con il bassista Dan Berglund che si era aggiunto nel 1993 ad un gruppo che comprendeva già Magnus Öström, batterista ed amico d’infanzia del pianista – il trio debutterà su CD nel 1993. E.S.T. - questo il marchio di fabbrica scelto – diventerà uno dei gruppi di maggior successo di quegli anni, entrando spesso al top delle classifiche di vendita assolute (non solo in ambito jazz, dunque) in Scandinavia e nel Nord Europa. L’Esbjörn Svensson Trio tra il 1993 e il 2008 ha pubblicato più di una decina di album tra i quali spiccano From Gagarin point of view (1999), Strange place for snow (2002) e il postumo Leucocyte (2008).
Maurizio Franco ripercorre la storia del pianista e del suo gruppo.
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Horace Tapscott, pianista
Marcello Lorrai si china in questa sua serie di Birdland sulla figura un po’ dimenticata di Horace Tapscott, pianista e compositore nato nel 1934, texano di origine ma cresciuto in una famiglia di musicisti a Los Angeles dove è scomparso nel 1999. Tapscott sin da bambino entrò in contatto con il mondo del jazz: in città si esibivano i più grandi ed ebbe la possibilità di ascoltarne i vari Tatum, Parker, Hawkins e molti altri. Iniziò a suonare ben presto il pianoforte e si dedicò anche al trombone. E’ stato un musicista dalle tante sfaccettature, sin dai suoi esordi come trombonista nell’orchestra di Lionel Hampton, alle collaborazioni con avanguardisti come Eric Dolphy e Arthur Blythe, alla fondazione di suoi originali gruppi come la Pan-Afrikan People Arkestra o il trio con il grande batterista Roy Haynes. Tapscott è ricordato anche come uno dei jazzisti più politicizzati riguardo i problemi della condizione dei neroamericani nella società statunitense dell’epoca, ciò che gli valse spesso l’ostracismo degli ambienti più reazionari dell’industria musicale. I suoi più importanti dischi sono stati pubblicati dalla Nimbus e dalla svizzera Hat Art.
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La voce di Helen Merrill
Jelena Ana Milcetic è il vero nome di Helen Merrill, cantante jazz di origine croata nata a New York nel 1930. Si segnalò nei primi anni ’50 accanto a Earl Hines, ebbe la fortuna di lavorare da giovanissima con Bud Powell e debuttò con un paio di album prodotti e arrangiati rispettivamente da un ventunenne Quincy Jones e da un nome emergente come quello di Gil Evans, dischi dove comparivano alcuni tenori del jazz moderno quali Clifford Brown, Oscar Pettiford e diversi altri. Importante in seguito il suo soggiorno in Europa nei primi anni ’60, in Italia in particolare, dove registrò una memorabile versione di Why Don't You Do Right, brano che ritornò in auge molti anni dopo nella colonna sonora del film Chi ha incastrato Roger Rabbit.
Successivo lungo soggiorno in Giappone e poi ritorno negli Stati Uniti dove ha continuato una carriera di primo piano da gran dama del jazz e prodotto negli anni ’90 album di pregevole fattura.
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Steve Kuhn, pianista
In queste due puntate di Birdland Maurizio Franco si china sull’arte pianistica di Steve Kuhn, musicista nato a New York nel 1938 e ancor oggi in piena attività.
Dopo gli esordi accanto al celebre quanto sfortunato baritonista Serge Chaloff, Kuhn ha suonato tra la metà degli anni ’50 e l’inizio del decennio successivo con alcuni tra i più grandi innovatori del jazz: Don Cherry, Ornette Coleman e da ultimo John Coltrane, di cui fu il primo pianista nel celebre quartetto.
Legato a filo diretto con la grande tradizione del moderno trio pianistico, Steve Kuhn ha contribuito a ridefinirlo assieme ad esimi colleghi quali Billy Evans e Paul Bley. Tra le sue recenti produzioni discografiche alcune di grande spessore per la tedesca ECM saranno qui prese in considerazione.
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Tim Berne, sassofonista e compositore
Musicista eclettico - sassofonista, compositore e leader di numerosi originali progetti - Tim Berne è originario di Syracuse, stato di New York, dove nasce nel 1954.
È solo nei primi anni ’70 che decide di dedicarsi completamente alla musica. Sarà Julius Hemphill sassofonista noto per la sua militanza nel World Saxophone Quartet e negli ambienti della cosiddetta loft generation, il suo mentore e maestro.
Tim Berne inizierà a segnalarsi come figura di rilievo della scena off newyorkese nei primi anni ’80, dapprima con album pubblicati dall’etichetta italiana Soul Note, poi con la tedesca JMT di Monaco.
Di rilievo in quel periodo e fin negli anni ’90 le collaborazioni con Bill Frisell, Paul Motian, Glenn Ferris e molti altri, nonché i suoi gruppi Miniature, Bloodcount, Paraphrase, Caos Totale, Science Friction.
Fra i suoi ultimi progetti di rilievo ricordiamo il colletivo Los Totopos e il gruppo Snakeoil.
Determinanti nello sviluppo della sua musica sono state le collaborazioni con altri protagonisti della scena avant-garde nuovayorkese come i batteristi Joey Baron e Tom Rainey, i contrabbassisti Mark Dresser e Michael Formanek, il pianista Craig Taborn.
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Anthony Braxton "New York Fall 1974"
Musicista che da sempre ha diviso pubblico e critica, Anthony Braxton è certamente da annoverare tra i sassofonisti e compositori di primo piano di quel jazz che, dopo il periodo del free jazz, ha tentato negli anni ’70 di collegarsi da una parte alle radici della grande tradizione della black music, dall’altra agli stimoli dell’avanguardia colta di matrice occidentale.
Dopo una parentesi in Europa, dove molti musicisti dell’area di Chicago – allora capitale della nuova onda del jazz nero d’avanguardia – si erano trasferiti per cercare ispirazione, Braxton torna a New York e strappa un contratto discografico con l’etichetta Arista. New York Fall 1974 è il primo disco pubblicato, produzione che segna un punto di svolta e che presenta un Braxton in pieno divenire. Al quartetto di base, composto assieme al trombettista Kenny Wheeler, al bassista Dave Holland e al batterista Jerome Cooper, si aggiungono in alcuni brani lo sperimentatore elettronico Richard Teitelbaum e quello che sarebbe poco dopo diventato il noto World Saxophone Quartet.
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Le grandi rassegne Newport, i primi anni 1954-1957
Di tanto in tanto Birdland si occupa dei festival che hanno dato lustro alla musica afro-americana e quello di Newport è senza dubbio il modello cui fecero riferimento le rassegne che nacquero in seguito. Nel 1954 una coppia dell’alta società della cittadina – Eliane e Louis Lorillard – ebbe l’idea di organizzare una serie di concerti, di incontri e tavole rotonde che avessero il jazz come tema di fondo. Contattato dai due coniugi, fu il produttore George Wein ad organizzare fattivamente l’evento che ebbe successo immediato, con ben più di 10.000 spettatori presenti nei due giorni previsti nel cartellone. Questa prima edizione si tenne nel Casino della città, alcuni concerti open air sul prato antistante. Da allora il nome di Newport è legato a doppio filo con il jazz. Non solo dunque al turismo, alla sede della US Navy o alla Coppa America di vela per i quali la cittadina dello stato del Rhode Island è famosa. La maggior parte delle prime edizioni furono diffuse e registrate da Voice of America: la documentazione è dunque a tal proposito di grande valore. Marcello Lorrai si chinerà dapprima sulle prime edizioni fino al 1957, per poi concentrarsi su quella “storica” del 1958 in una successiva serie.
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Arild Andersen, contrabbassista e compositore
Big Four è l’appellativo con cui si definiscono comunemente, in ambito turistico, i quattro fiordi norvegesi più belli e spettacolari. Tale appellativo è stato così trasposto nel mondo musicale da alcuni critici del jazz per indicare le personalità più rappresentative della musica improvvisata del paese nordico: il sassofonista Jan Garbarek, il chitarrista Terje Rypdal, il batterista Jon Christensen e il contrabbassista Arild Andersen che formarono tra l’altro a cavallo tra anni ’60 e ’70 uno straordinario ensemble. È a quest’ultimo che Claudio Sessa consacra questa serie di Birdland.
Arild Andersen, nato nel 1945, è un musicista centrale del jazz europeo sin dai primi anni '70. Ad inizio carriera ha fatto parte del sopraccitato quartetto, gruppo-faro dell'epoca e band pionieristica del moderno jazz scandinavo. In quel periodo ha pure avuto occasione di lavorare con musicisti americani di primo piano di passaggio in Europa: Phil Woods, Sonny Rollins, Dexter Gordon, Chick Corea, Stan Getz, Paul Bley. Fra gli ensembles da lui diretti in seguito ricordiamo il proprio quartetto degli anni '70 e, nel decennio successivo, il quintetto Mascalero dove spiccava la presenza di musicisti emergenti quali Nils Petter Molvear e Jon Balke. Andersen ha lavorato successivamente con la cantante folk Kirsten B.Berg al progetto Hyperborean (con il Cikada String Quartet) e con due trii, per certi versi antitetici: il primo assieme a Markus Stockhausen (tromba) e Patrice Héral (percussioni), l'altro con il pianista greco Vassilis Tsabropoulos e il batterista inglese John Marshall. Una delle sue opere di più ampio respiro è la bellissima Elektra, rielaborazione del celebre dramma di Sofocle, scritta su commissione per i Giochi Olimpici di Atene del 2004 e poi pubblicata (come gran parte della sua discografia) da ECM. Il trio con l'eccellente sassofonista britannico Tommy Smith e il batterista italiano Paolo Vinaccia e un quintetto dove ai tre si aggiungono anche Paolo Fresu e il pianista Marcin Wasilewski sono in ordine di tempo gli ultimi progetti del contrabbassista.
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Egberto Gismonti, chitarrista e pianista
Dopo la “scoperta” grazie a Miles Davis, tra la fine dei ’60 e l’inizio dei ’70, di un Brasile diverso - non solo samba e bossa nova - grazie alla collaborazione in alcuni suoi dischi storici del periodo di un istrionico e carismatico multi strumentista-compositore che rispondeva al nome di Hermeto Pascoal, fino allora sconosciuto ai più, è il chitarrista e pianista Egberto Gismonti negli anni ’70 a precisare i contorni di Brasile musicale contemporaneo dove sulla tela di fondo di una variegatissima tradizione si innestano le influenze del jazz, dell’improvvisazione e di certa musica colta che ha nel compositore Heitor Villa Lobos il suo rappresentante più illustre.
Gismonti è nato a Carmo, stato di Rio de Janeiro, nel 1947. Sangue italiano e libanese nelle vene, ha studiato in Europa, a Parigi, in particolare con illustri maestri come Nadia Boulanger e il compositore Jean Barraqué. Tornato in Brasile approfondisce la musica popolare, nello specifico anche quella degli indios Xingù, e al tempo stesso suona in gruppi rock e jazz, si appassiona per il choro e si lascia influenzare da Ravel, Varèse, i compositori della scuola di Vienna. Suoi strumenti sono il pianoforte e poi la chitarra, che diventa la sua specialità quando inizia a sperimentare su strumenti a 8 e poi 10 corde.
La sua particolare vena creativa non sfugge all’attenzione per la contemporaneità dell’etichetta tedesca ECM, per la quale inizia a incidere nel 1977: è l’inizio di una nuova carriera che l’ha portato a diventare uno dei musicisti di primo piano della musica del nostro tempo. Al leggendario debutto con il disco Danças das Cabeças - in duo con il percussionista Nana Vasconcellos - seguirà lunga una serie di produzioni molto diverse una dall’altra. ECM, al quale il musicista è ancor oggi legato, ristamperà il catalogo giovanile del primo Gismonti e distribuirà anche le successive produzioni brasiliane del musicista pubblicate su label Carmo.
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Max Roach ''Percussion bitter sweet'' (1961)
Disco sulla stessa tematica - la lotta per i diritti civili dei neroamericani – di Freedom Now Suite (1960), altro capolavoro del batterista, Percussion Bitter Sweet esce l’anno successivo ed è per certi versi antitetico dal punto di vista musicale rispetto al precedente. Vi ritroviamo la splendida voce di Abbey Lincoln usata quasi come “colore” aggiunto che fluttua tra le voci degli altri strumenti, uno straordinario Eric Dolphy al clarinetto basso e ancora la tromba per certi versi straziante di Booker Little. I riferimenti politici sono molteplici: il brano iniziale è un omaggio al leader nero, sindacalista e scrittore di origine gamaicana, Macus Garvey mentre Tender Warriors è dedicato ai militanti della non violenza.
Claudio Sessa ci parla di questo disco essenziale del jazz moderno e ce ne propone i passaggi più significativi.
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Steve Lacy ''Evidence'' (1961)
Evidence è uno dei maggiori dischi prodotti da Steve Lacy, grande specialista del sax soprano, negli anni (siamo tra a cavallo tra i ’50 e i ’60) in cui approfondì, dopo aver lavorato per lungo tempo con il maestro, la musica di Thelonious Monk.
In questa registrazione del 1961 Lacy rilegge il “classico” monkiano del titolo e tre altri brani meno noti del pianista e compositore quali Let's Cool One, San Francisco Holiday e Who Knows, abbinandoli ad due altrettanto poco noti pezzi di Duke Ellington, quasi a segnare l’influenza che Il Duca ebbe sullo stesso Monk. Compagni di avventura in questo disco centrale del jazz moderno sono un eccelso Don Cherry alla tromba, Billy Higgins alla batteria e Carl Brown al contrabbasso.
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Ahmad Jamal, pianista
hmad Jamal, nato a Pittsburg nel 1930, è uno dei pianisti più influenti del jazz moderno. Si mette in evidenza giovanissimo nei primi anni ’50 con un trio assieme a chitarra e contrabbasso, che si tramuterà poi nel classico trio piano-basso-batteria nella seconda metà del decennio, sua formazione prediletta. Lontano dai virtuosismi del bop e del post-bop, Jamal ha percorso una sua originale strada legata idealmente all’estetica del cool jazz anche se non possiamo considerarlo esponente ufficiale di quest’ultima. Fraseggio personale di grande respiro, attenzione all’aspetto ritmico, dilatazione dello spazio sonoro e utilizzo di tutti i registri della tastiera sono alcune delle caratteristiche del suo pianismo che uno come Miles Davis considerava, all’epoca dell’apparizione di Jamal sulla scena del jazz moderno, tra i più innovativi.
Bill Evans, Paul Bley e successivamente anche Jarrett hanno debiti nei confronti di un musicista che, dopo il grande successo ottenuto con i primi dischi negli anni ’50 e una fase di eclissi durata a lungo, si è riproposto nel pieno della sua arte dalla fine degli anni ’80 ed è ancor oggi, ormai entrato nella categoria degli ottuagenari, in piena attività.
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Derive blues: Taj Mahal
Nelle incursioni blues che Ricardo Bertoncelli ci propone di tanto in tanto in Birdland, questa settimana è la volta di Taj Mahal.
Nato come Henry Saint Clair Fredericks jr. nel 1942 e cresciuto nel Massachusetts in una famiglia di musicisti (il padre era un pianista jazz ed un reputato arrangiatore che una come Ella Fitzgerald chiamava “the Genius” - la madre attiva nell’educazione) Taj Mahal è un bluesman atipico, da sempre attento alle influenze più disparate che vanno dal gospel alla musica caraibica, dal crogiuolo di tradizioni del Sud degli Stati Uniti fin alla musica delle Hawaii. Degli interessi diremmo enciclopedici, frutto anche di un ambiente familiare dove sia ascoltava molta radio e tanti dischi e dove le visite di musicisti i più diversi erano ricorrenti; interessi che non per caso si sono incrociati ad inizio carriera, dopo degli studi in agronomia, a quelli di Ry Cooder - il chitarrista, cantante e poi celebrato produttore, uno dei massimi conoscitori della musica delle Americhe – con il quale formò in California il gruppo dei Rising Sons.
In queste quattro puntate di Birdland si passerà in rassegna la carriera ormai lunghissima di un musicista che, grazie ad un’arte sempre aperta al confronto, è riuscito a ritagliarsi un’ampia popolarità presso le audiences più diverse.
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Bill Evans compositore
In passato la figura del pianista Bill Evans, personalità di primo piano del jazz moderno, è stata spesso al centro dell’attenzione nel nostro spazio di storia del jazz.
Quando ci si accosta ad Evans lo si fa quasi esclusivamente pensando alla sua vena di interprete e stilista del pianoforte, ma questa volta Maurizio Franco sposta l’accento andando ad indagare piuttosto il suo ingegno di compositore.
Bill Evans ha scritto molto e ha lasciato un repertorio che in parte è diventato classico.
Nel corso di questa serie di Birdland si potranno ascoltare alcuni brani - primo fra tutti Waltz for Debby, certamente sua la composizione più frequentata dai collgehi, ma anche Time remembered, Very Early, Periscope, Funkallero e altri – nella versione originale e poi nella rilettura che ne hanno dato i musicisti più diversi.
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I grandi festival: Duke Ellington a Newport 1958
Di tanto in tanto Birdland si occupa dei festival che hanno dato lustro alla musica afro-americana e quello di Newport è senza dubbio il modello cui fecero riferimento le rassegne che nacquero in seguito.
Nel 1954 una coppia dell’alta società della cittadina – Eliane e Louis Lorillard – ebbe l’idea di organizzare una serie di concerti, di incontri e tavole rotonde che avessero il jazz come tema di fondo. Contattato dai due coniugi, fu il produttore George Wein ad organizzare fattivamente l’evento che ebbe successo immediato, con ben più di 10.000 spettatori presenti nei due giorni previsti nel cartellone. Questa prima edizione si tenne nel Casino della città, alcuni concerti open air sul prato antistante. Da allora il nome di Newport è legato a doppio filo con il jazz, non solo dunque al turismo, alla sede della US Navy o alla Coppa America di vela per i quali la cittadina dello stato del Rhode Island è famosa.
La maggior parte delle prime edizioni furono diffuse e registrate da Voice of America: la documentazione è dunque a tal proposito copiosa e di grande valore. Marcello Lorrai si occuperà in questa serie di Birdland del programma speciale – una giornata intera – dedicato alla figura di Duke Ellington che il festival organizzò per l’edizione del 1958: non solo l’esibizione stessa della celebre orchestra ellingtoniana ma pure i concerti in suo omaggio tenuti da alcuni grandi nomi del jazz invitati a tal proposito.
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Incontro con Flavio Ambrosetti
La riproposta di quest’incontro (in due parti) con Flavio Ambrosetti realizzato da Paolo Keller nel 1996 per il programma di Rete Due Filo diretto completa, accanto al ciclo di Maurizio Franco andato in onda nei giorni scorsi, la serie di trasmissioni che Birdland dedica questa settimana alla figura del sassofonista ticinese, scomparso lo scorso mese di agosto all’età di 93 anni.
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Soft Machine e Robert Wyatt – la storia
Soft Machine furono uno dei gruppi più influenti del jazz-rock e del progressive inglese fra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Usciti fuori dal circolo dei college inglesi, in particolare dalla fertile scena artistica di Canterbury, il loro nome – in italiano La macchina morbida - era preso a prestito da un omonima novella di Williams Burroughs dei primi anni ’60. Il loro sound in gran parte elettrificato, con la presenza di improvvisazione jazzistica e di elementi di psichedelìa, con l’uso stralunato e spiazzante delle voci, contribuì ad aprire le porte a nuove e coraggiose tendenze della musica dell’epoca. Tra le figure di maggior spicco dell’ensemble ricordiamo il membro fondatore – cantante e chitarrista - Daevid Allen (che lasciò il gruppo ben presto) e certamente il batterista (e pure lui cantante) Robert Wyatt, che proseguì ad un certo punto la sua carriera in solitaria, non senza prima aver dato il suo contributo essenziale alle fortune della band.
Riccardo Bertoncelli, vero specialista in materia, ci racconta in questo suo ciclo di Birdland le storie parallele del gruppo e dello stesso Wyatt.
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The Rock & Pop Songbook
Il repertorio del jazz, accanto alle composizioni originali dei suoi protagonisti, si è alimentato sin dall’inizio con brani dalle più disparate provenienze. Tra queste il rag-time, il blues e poi in particolar modo le songs più popolari tratte dai musicals di Broadway. Standard venne quindi definita una canzone di grande popolarità, condivisa da un vasto pubblico, sulla struttura della quale i jazzisti creavano le loro improvvisazioni. In tempi recenti a rinnovare tale repertorio hanno contribuito pure temi e canzoni di provenienza rock e pop, delle covers d’autore che sono andate a rinnovare quello che è stato definito in origine il “Great American Songbook”.
Riccardo Bertoncelli propone queste settimana una quarta serie sul tema, dove scorreranno via via nuove declinazioni in chiave jazz di brani scritti da Steve Miller Band, Donovan, Dylan fino a Joni Mitchell.
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Edited by Elrond_55 - 4/4/2015, 18:02
 
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